Proposta Radicale 18 2024
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Saggio

La mia religione

di Lev Tolstoj (a cura di Guido Biancardi)

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Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

L’audizione di Fiammetta Borsellino e Fabio Trizzino

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La mia religione

La mia religione

di Lev Tolstoj (a cura di Guido Biancardi)

(di seguito la settima parte dell’opera, inedita per l’Italia, de “La mia religione”, di Lev Tolstoj)

È sufficiente comprendere l’insegnamento del Cristo per vedere che il mondo, non quello che è stato fatto dono da Dio per la gioia degli uomini, ma quello che è stato istituito dagli uomini per la loro stessa perdita, è un sogno, un sogno dei più assurdi, terrificanti, il delirio di un folle dal quale basta risvegliarsi una volta per non ripiombare più in un siffatto incubo.

Dio è sceso in terra; il Figlio di Dio, uno delle persone della Santa Trinità, si è incarnato, ha riscattato il peccato d’Adamo. Questo Dio, così come ci è stato insegnato a pensarlo, ha dovuto dire qualcosa di misteriosamente mistico, che è difficile da comprendere e che non è possibile apprendere che a mezzo della fede e della grazia; ora, ecco che le parole di Dio sono così semplici, chiare, ragionevoli. Dio ci dice in tutta semplicità: non fatevi del male gli uni agli altri, ed il male sparirà. È possibile che la rivelazione di Dio sia così semplice? È possibile che non abbia detto che questo? Ci sembra che questo, lo si sappia già tutti; è talmente semplice.

Il profeta Elia, fuggendogli uomini, si era nascosto in una grotta e gli era stato rivelato che Dio gli sarebbe apparso all’entrata di tale grotta. C’era stata una tempesta che spezzava gli alberi. Elia aveva pensato fosse Dio ed aveva guardato, ma Dio non era là. Poi era cominciato un temporale: c’era stato un tuono terribile e dei fulmini. Elia era uscito per vedere se Dio fosse là, ma Dio non c’era. In seguito, un terremoto era cominciato; un fuoco era sorto dalla terra, le rocce si erano fessurate e delle montagne erano crollate. Elia aveva guardato: Dio, là, non c’era. Poi tutto si era calmato ed una leggera brezza si era messa ad alitare sui campi rinfrescati. Elia aveva guardato: Dio era là.

Era questo il senso di quelle semplici parole di Dio: non resistere al malvagio.

Esse sono semplici, quelle parole, ma esprimono la legge di Dio e dell’uomo, unica ed eterna. Questa legge è eterna a tal punto che, se esiste nella storia un movimento in avanti verso la diminuzione del male, è unicamente grazie agli uomini che hanno compreso la legge del Cristo in tale modo e che hanno sopportato il male in luogo di opporvisi attraverso la violenza. Il movimento verso il bene, compiuto dall’umanità, si effettua grazie ai martiri e non grazie ai boia dell’anima umana questo costituisce una legge così irrefutabile come quella di Galileo; come un fuoco non può spegnere un altro fuoco, così il male non può spegnere il male. Solo il bene quando incontra il male senza lasciarsi contaminare da lui, può vincere il male. Nel mondo no, ancor più irrefutabile, più chiara e più completa. Gli uomini possono trasgredirla, possono nasconderla agli altri, ma, malgrado tutto, il movimento dell’umanità verso il bene non può che realizzarsi che su questa via. Ogni passo in avanti sarà compiuto unicamente nel nome della non-resistenza al male. Un discepolo del Cristo può affermare, con maggior certezza di Galileo, in vista di tutte le possibili tentazioni e minacce: “e, malgrado tutto, non è la violenza, ma il bene che avrà ragione del male”. E, se questo movimento è lento, lo è unicamente perché la chiarezza, la semplicità, il carattere ragionevole, inevitabile, ed obbligatorio dell’insegnamento del Cristo sono dissimulati alla maggior parte delle persone nella maniera più scaltra e più pericolosa, nascosti sotto una falsa dottrina che viene presentata, a torto, come la vera. Perché dunque, gli uomini non fanno ciò che il Cristo ha detto loro di fare, dal momento che questo darebbe loro il bene supremo che essi hanno sempre desiderato e che ancora desiderano? Odo da ogni parte una sola risposta espressa in maniere diverse: l’insegnamento del Cristo è bellissimo ed è vero che, se lo si seguisse il regno di Dio si instaurerebbe sulla terra, ma è difficile, dunque, irrealizzabile. Ciò che il Cristo insegna sulla maniera con cui la gente deve vivere è divinamente buono e farebbe il bene degli uomini, ma è difficile da realizzare per gli uomini. Ripetiamo ed intendiamo queste parole così sovente da non veder più la contraddizione che vi è ospitata. È nella natura dell’uomo fare ciò che è meglio… Da che l’uomo esiste, la sua attività raziocinante mira ad uscire al meglio dalle contraddizioni di cui è piena la vita di un individuo come quella dell’umanità nel suo assieme.

Gli uomini si battono per la terra, infine essi giungono a dividere tutto e chiamano ciò la proprietà: essi trovano che malgrado tutte le difficoltà che ciò presenta, è meglio così, ed essi mantengono la proprietà; gli uomini si battono per delle donne, abbandonano i loro figli, ma finiscono per trovare che per ciascuno è meglio avere la propria famiglia, e sebbene sia molto difficile nutrire una famiglia, essi mantengono la società, la famiglia e ben d’altre cose. Ogni volta che gli uomini hanno trovato che una cosa fosse meglio, essi vi si sono conformati, per quanto difficile questo sia potuto apparire loro. Cosa vogliamo dunque dire dicendo: l’insegnamento del Cristo è bello, la vita che ci prospetta è migliore di quella che facciamo, ma non possiamo accettare questa migliore maniera perché “è difficile”?

Se “difficile” vuol dire che è difficile sacrificare la soddisfazione momentanea della propria concupiscenza ad un bene, fosse pur grande, allora, perché non ci diciamo che è difficile arare, per avere del pane? Piantare degli alberi di mele per avere dei pomi? Ogni essere dotato di rudimenti d’intelligenza sa che non si raggiunge un bene importante senza dover superare delle difficoltà. Ed ecco che troviamo bello l’insegnamento del Cristo, ma irrealizzabile in quanto difficile. È difficile perché, seguendolo, dovremmo privarci di quel che avevamo prima. Come se non avessimo mai sentito che è talvolta più vantaggioso subire un danno e rinunziare a qualcosa che non subire mai nulla e servire unicamente la nostra concupiscenza.

Un uomo può essere bestiale, e nessuno glielo rimprovererà, ma l’uomo non deve ragionare dicendo di voler essere una bestia. Dal momento in cui si mette a ragionare egli si riconosce ragionevole e, riconoscendosi tale, non può non distinguere ciò che è ragionevole da ciò che non lo è. L’intelligenza non ci comanda nulla; essa non fa che illuminarci. Cercando una porta nell’oscurità io picchio contro il muro con le mie braccia e le mie gambe. Entra un uomo con della luce e io scorgo la porta. Non posso più, dunque, picchiare contro il muro, ed ancor meno posso affermare che pur vedendo quella porta, e pur pensando che sarebbe meglio servirmene, trovi questo difficile e preferisca continuare a sbattere i ginocchi nel muro.

La falsa idea che è all’origine di questo ragionamento è ciò che viene chiamata la fede cristiana dogmatica, quella fede che si insegna sin dall’infanzia a tutti i cristiani nei diversi catechismi ortodossi, cattolici e protestanti. Tale fede, secondo una definizione data dagli stessi credenti, consiste nel riconoscere come reale ciò che è apparente (queste parole, pronunziate dall’apostolo Paolo, sono riprese in tutte le teologie ed in tutti i catechismi come la migliore definizione della fede). È questo riconoscimento come vero di ciò che è apparente che ha portato gli uomini alla strana affermazione secondo la quale l’insegnamento del Cristo è buono per gli uomini ma non conviene loro.

La dottrina di questa fede, nella sua più precisa espressione, si presenta così: un Dio vivente ed eterno, uno in tre persone, decise improvvisamente di creare un mondo di spiriti. Dio che è buono creò questi spiriti per il loro bene: ma accadde che uno di questi spiriti divenne cattivo e pertanto infausto. Dopo molto tempo, Dio creò un secondo mondo, materiale, e l’uomo, egualmente per il suo bene. Dio lo creò beato, immortale e senza peccato. Era beato poiché profittava dei beni della vita senza lavorare; immortale poiché quell’esistenza doveva durare senza fine; senza peccato poiché ignorava il male. Quest’uomo, in paradiso, fu sedotto da quello spirito appartenente alla prima creazione, divenuto cattivo da sé stesso, e, da quel giorno l’uomo è decaduto e fa nascere altri uomini anch’essi decaduti; da quel tempo gli uomini cominciarono a lavorare, ad essere ammalati, a soffrire, a morire, a lottare fisicamente e spiritualmente. In altre parole, l’uomo immaginario si è trasformato nell’ uomo reale quale lo conosciamo, e non abbiamo dunque il diritto d’immaginare diversamente. Secondo questa dottrina lo stato dell’uomo che lavora, soffre, sceglie il bene e rifugge il male, e poi muore, questo stato che esiste e fuori dal quale non possiamo immaginare nulla, non è il suo vero stato, è uno stato improprio, fortuito, provvisorio. Anche se, secondo questa dottrina, tale stato dura per tutti gli uomini da quando Adamo fu scacciato dal paradiso, cioè dall’inizio del mondo, sino alla nascita del Cristo e persino ai giorni nostri, i credenti devono immaginare che si tratta di uno stato fortuito, provvisorio. Secondo questa dottrina, il Figlio di Dio (lui stesso Dio, la seconda persona della Trinità) fu inviato da Dio sulla terra e prese le sembianze d’un uomo al fine di salvare gli uomini da questo stato fortuito, provvisorio, che è loro improprio, al fine di togliere tutte le maledizioni che questo stesso Dio aveva fatto pesare su di essi a causa del peccato d’Adamo e per restaurarli nel loro primo e naturale stato di beatitudine che è assenza di dolore, immortalità, innocenza ed oziosità. Per questa dottrina, la seconda persona della Trinità, il Cristo, ha espiato il peccato di Adamo per il fatto stesso che gli uomini l’hanno crocefisso, mettendo fine a quello stato antinaturale dell’uomo che durava dall’inizio del mondo. Da allora, ogni uomo che crede nel Cristo ha ritrovato lo stato che era suo in paradiso, ridiventando immortale, innocente ed ozioso e sottraendosi al dolore.

La dottrina non si ferma su questa parte del compimento della redenzione che farebbe sì che dopo la venuta di Cristo, la terra darebbe i suoi frutti per i credenti senza che essi debbano penare per averli, le malattie sparirebbero, le madri non soffrirebbero più mettendo i loro figli al mondo; poiché non è per nulla facile persuadere coloro che lavorano duro e soffrono, qualunque sia la loro fede, che il loro faticare si fa senza pena e che la loro sofferenza non è dolore. In compenso l’altra parte della dottrina, secondo cui la morte ed il peccato non esistono già più sin d’ora, è affermata con particolare zelo.

Si afferma che i morti sono sempre in vita. E dato che essi stessi non possono in alcun modo confermare di essere morti né che sono vivi, non più che una pietra possa affermare che essa possa, o meno parlare, questa assenza di protesta è ammessa come prova, e si considera che coloro che sono morti non lo sono affatto. E si afferma ancor più solennemente, con ancor maggiore certezza, che, dalla venuta del Cristo l’uomo non ha più bisogno di rischiarare la sua vita con l’intelligenza, né di scegliere ciò che è meglio per lui; l’uomo è sbarazzato dal peccato. Gli basta credere che il Cristo l’ha liberato dal peccato, ed egli sarà sempre innocente, ovvero perfettamente buono. Secondo questa dottrina gli uomini devono immaginare che la loro intelligenza è impotente e che sono dunque innocenti poiché non possono errare.

Un vero credente dovrebbe immaginare che dalla venuta del Cristo la terra dona i suoi frutti senza fatiche, le donne partoriscono senza dolore, che non vi sono più malattie, né morte, né peccato, che non ci sono più errori, ovvero che ciò che è non esiste e che esiste ciò che non è.

È ciò che afferma la teologia se la si segue sino all’estremo nella sua logica.

(Segue. Le precedenti tre parti di questo saggio sono state pubblicate su “Proposta Radicale” n.8, 9, 10, 13, 14-15)

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

23 maggio 1992: vicino Capaci con una carica composta da tritolo, RDX e nitrato d’ammonio con potenza pari a 500 kg di tritolo, vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie del magistrato, gli uomini della scorta. 19 luglio 1992: a via Mariano D’Amelio a Palermo vengono uccisi Paolo Borsellino, magistrato e fraterno amico di Falcone, e le persone della sua scorta. Stragi indiscutibilmente mafiose, attribuibili alla cosca che faceva capo a Totò Riina, e tra loro altrettanto indiscutibilmente collegate. Da allora si è scritto e si è detto tutto e il suo contrario. Una chiave di lettura non a caso inedita, giudiziariamente affossata, giornalisticamente trascurata, è quella che viene raccontata in tre libri recenti: M.M., in codice unico del generale Mario Mori (La Nave di Teseo); La verità sul dossier mafia-appalti, sempre di Mori e del colonnello Giuseppe De Donno (Piemme); Ho difeso la Repubblica. Come il processo trattativa non ha cambiato la storia d’Italia, di Basilio Milio (L’Ornitorinco editore).

Ma da qualche settimana questa chiave di lettura ha trovato anche uno sbocco istituzionale-parlamentare. La commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, infatti ha deciso di audire l’avvocato Fabio Trizzino, che rappresenta i tre figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Lucia, Manfredi. Audizioni importanti, che Radio Radicale ha trasmesso integralmente. Proposta Radicale da questo numero comincia a pubblicare gli stenografici di queste significative sedute, non per un caso ignorate dalla grande informazione e da buona parte dei “professionisti dell’antimafia”.

Seduta di mercoledì 27 settembre 2023

Presidente Chiara Colosimo: “Ringraziando della presenza e chiedendo ai commissari l’attenzione dovuta al tema, do la parola a Lucia Borsellino”.

Lucia Borsellino: “Saluto tutti i presenti e saluto e ringrazio il presidente Colosimo per questa opportunità. Sono qui anche in rappresentanza di mio fratello Manfredi e di Fiammetta Borsellino, che attraverso me la ringraziano, presidente, non soltanto per avere invitato la mia persona ma anche per aver consentito l’audizione di mio marito, l’avvocato Fabio Trizzino, che è anche legale e che rappresenta me e i miei fratelli, insieme con l’avvocato Vincenzo Greco, nei processi che riguardano la strage di via D’Amelio, come parti civili, presso il competente tribunale di Caltanissetta.

Essere qui per me oggi è un onore ma anche un onere non indifferente, per l’impegno che circostanze come questa richiedono sotto il profilo emotivo. Parlare di fatti strettamente riguardanti la mia famiglia, e quindi la mia vita, ci costringe in occasioni come questa a mettere a dura prova la nostra sensibilità di fronte a fatti che devono riemergere chiaramente dalla nostra memoria, per cui sono sempre delle incursioni che a volte destrutturano la faticosa ricerca anche di un equilibrio interiore che abbiamo perseguito in tutti questi trentun anni che ci separano dalla morte di mio padre.

Detto questo, dico che in quanto figlia di Paolo Emanuele Borsellino, avendo convissuto con lui insieme con mia madre Agnese Piraino e ai miei fratelli fino all’ultimo giorno della sua vita, che è stata stroncata a Palermo, in via D’Amelio, il 19 luglio del 1992, noi siamo testimoni diretti di vita vissuta con mio padre. Nel senso che abbiamo condiviso e supportato le sue scelte e lo abbiamo accompagnato in ogni dove e abbiamo assunto su di noi anche i rischi che queste scelte comportavano in maniera assai consapevole. Rischi che si sono estesi anche post mortem, in quanto tutto questo non è bastato per metterci al riparo, seppure sui figli, anche da tentativi di delegittimazione. In quanto testimoni siamo stati ascoltati di fronte all’autorità giudiziaria in diverse occasioni. Per quanto riguarda la mia persona, sono stata convocata per la prima volta solo a partire dal 19 ottobre 2015 nell’ambito del processo cosiddetto «Borsellino quater», cui è seguita poi un’altra audizione il 14 luglio 2016, sempre nell’ambito dello stesso processo, per poi il 3 dicembre 2018 ritornare in aula insieme con mio fratello Manfredi nell’ambito del processo cosiddetto «Depistaggio» contro gli ex poliziotti Mario Bo ed altri afferenti al nucleo investigativo denominato «Falcone e Borsellino». Prima di allora soltanto mia madre è stata sentita nel marzo del 1995, eravamo ancora al processo «Borsellino 1», e successivamente nell’agosto 2009 e, se non vado errata, nel gennaio del 2010.

In tutte queste circostanze le nostre testimonianze hanno messo a fuoco momenti di vita vissuta con mio padre, soprattutto negli ultimi 57 giorni che sono intercorsi tra le stragi di Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della loro scorta e la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita anche cinque agenti di scorta insieme a mio padre. In particolare, mia madre ha testimoniato in ordine anche a confidenze direttamente ricevute dal marito, ancorché egli avesse ritenuto proprio di trasferirle nei modi come era consueto fare.

Dico ciò perché, finché è stato in vita, mio padre ha sempre cercato di tutelare gli altri componenti del suo nucleo familiare, in quanto il suo rischio era verosimilmente potenziato dall’avere un nucleo familiare composto da altre quattro persone che molto spesso camminavano con lui. Dico ciò in quanto le nostre testimonianze non potevano chiaramente scaturire da conoscenza diretta di atti o documenti inerenti al lavoro di mio papà, in quanto sia mia madre, per l’enorme rispetto che poneva nei riguardi del lavoro di mio padre e il dovuto riserbo che papà teneva sul suo lavoro, che noi figli, poco più o poco meno che ventenni all’epoca dei fatti, non potevamo certo conoscere il contenuto di atti e documenti. Oggi col senno di poi me ne rammarico, perché avrei voluto offrire un contributo molto più significativo come figlia ma ancor più come cittadina, ma evidentemente avrei fatto anche più fatica a ottenere l’equilibrio che siamo faticosamente riusciti a raggiungere, perché chiaramente per dei figli poco più che adolescenti venire a conoscenza diretta anche di documenti o atti inerenti la vita lavorativa di papà, e quindi anche elementi di dettaglio molto più approfonditi, ci avrebbero turbato non poco, vieppiù anche nelle fasi successive dopo la sua morte. Dico questo anche con riferimento ai contenuti dell’agenda rossa, di cui mia madre peraltro è stata la prima testimone nei giorni immediatamente successivi al compiersi della strage.

La mamma ha testimoniato sull’esistenza di questa agenda; pur non conoscendone chiaramente i contenuti, capiva perfettamente quanto questo strumento fosse prezioso dal momento che mio padre non se ne separava mai e lo vedeva spesso annotare su di esso appunti e impegni di lavoro. Il ritrovamento dell’agenda grigia nella mia abitazione è stato frutto, infatti, della pervicacia mia e di mio fratello, che soltanto dopo la morte di papà abbiamo cercato, in un’ottica estremamente collaborativa con l’autorità giudiziaria, di perlustrare ogni angolo della nostra abitazione pur di reperire atti e documenti che potessero essere utili ai fini investigativi.

Oggi siamo qui per offrire ancora una volta, non me ne vogliate, un tributo di riconoscenza ai miei genitori per averci donato la vita, ma soprattutto ai familiari delle vittime, con le quali ci accomuna questo dolore. E poi anche per i nuclei familiari che faticosamente abbiamo costruito successivamente, per i nostri figli. Perché, vedete, si può accettare sicuramente una morte per cause naturali perché si ha l’opportunità di accompagnare un proprio caro fino alla fine, nel caso di mio padre, sì, un accompagnamento c’è stato ma sicuramente non quello che avremmo voluto. Ed è proprio la strage del 19 luglio che ha segnato profondamente la nostra vita, non solo del mio nucleo familiare originario ma anche dei nuclei familiari che abbiamo costituito successivamente, estendendo i propri effetti in maniera indelebile e irreversibile anche sulle nuove generazioni, a partire dai nostri figli.

Quindi sono qui oggi perché a parte le date che vi ho ricordato, nelle quali abbiamo reso testimonianza, noi abbiamo agito in tutti questi anni, avendo fiducia piena nelle istituzioni, in quanto la nostra vita è stata permeata al senso del più alto rispetto delle istituzioni, così come ci ha insegnato nostro padre, avendole assunte sempre come presidio principale di garanzia di legalità e giustizia. Tuttavia, l’esserci resi conto che il corso delle indagini sulla strage nella quale mio padre perse la vita stesse per rivelare il determinarsi di gravissimi depistaggi, così come poi si è accertato si siano determinati già il giorno stesso, a partire dal giorno stesso del compimento della strage, ci ha portato a impegnarci più direttamente non solo con la partecipazione diretta alle udienze dei processi che si sono svolti al tribunale di Caltanissetta, insieme con i nostri legali, ma anche con la formulazione di precise e circostanziate istanze volte alla ricerca della verità, che abbiamo rappresentato sia in sedi pubbliche per voce anche in un certo periodo di mia sorella Fiammetta, ma anche in tutte le possibili sedi istituzionali, anche le più autorevoli.

Siamo qui per riproporre anche queste istanze volte alla conoscenza piena della verità sulla strage di via D’Amelio. Chiediamo che le componenti statuali, competenti a vario titolo e livello, possano far piena luce senza pregiudizi e senza condizionamenti su quelli che sono stati i particolari dettagli della vita di mio padre, documentati in atti e testimonianze dirette, che hanno caratterizzato gli ultimi momenti della sua vita, soprattutto nei 57 giorni tra le due stragi.

Chiediamo questo perché siamo convinti, dopo aver assistito in tutti questi anni al percorrere anche di piste investigative, alcune delle quali sono giunte alla loro definizione giudiziaria, ci siamo convinti che le altre piste che sono state solcate non hanno del tutto, o addirittura in alcuni casi assolutamente, considerato atti, documenti e prove testimoniali che potessero fornire degli elementi a nostro avviso indispensabili per comprendere il contesto nel quale mio padre operava e il profondo stato di prostrazione e di isolamento nel quale ha vissuto fino agli ultimi giorni della sua vita. E di cui, ripeto, siamo testimoni.

Le nostre richieste sono nel massimo rispetto dell’operato delle istituzioni, senza alcuna pretesa di volere sostenere una tesi piuttosto che un’altra perché noi non siamo tecnici, lo sono i nostri avvocati, tecnici del diritto, lo sono i magistrati ma certamente non noi figli, non ci compete. Pur non volendo sostenere alcuna tesi e non avere la pretesa di conoscere la verità, quella che vogliamo offrire oggi è una ricostruzione operata su una mole di atti, documenti e testimonianze che grazie al lavoro di mio marito, e ringrazio per questo il presidente per avere consentito l’audizione del nostro legale, vorremmo rassegnare degli elementi a questa Commissione che possono essere suscettibili di ulteriore approfondimento con il rigore logico che questi documenti meritano, per lo scopo che ci siamo prefissati e che credo trovi in voi un obiettivo comune.

Lo vogliamo perché si faccia chiarezza, perché il diritto alla verità non sia un’ossessione della famiglia Borsellino o degli altri familiari delle vittime. Il diritto alla verità è un diritto che appartiene all’intera collettività e noi pensiamo che sia doveroso consegnare alle nuove generazioni la narrazione fedele di ciò che realmente è accaduto in quella fase drammatica della storia del nostro Paese oltre che della nostra famiglia”.

Presidente Colosimo: “Grazie a Lucia Borsellino. Credo che non ci sia nulla da aggiungere, se non che il compito che queste ultime sue parole ci affidano è un compito gravoso, ma che, se fatto con tutti i criteri e con tutte le modalità non farà altro che dare il miglior servizio all’Italia. Perché il diritto alla verità e alla piena luce è sì un diritto di chi oggi è qui audito, ma è un diritto di tutta la comunità nazionale e di tutti coloro che in questi anni sono morti per mano della criminalità organizzata. Per cui certamente noi non abbiamo alcun esito già scritto, vogliamo fare piena luce, soprattutto partendo da quello che fin qui non è stato detto. Per questo lascio la parola all’avvocato Trizzino”.

Avvocato Fabio Trizzino. legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino: “Grazie. Volevo salutare il presidente Colosimo, la ringrazio per avermi invitato. Ringrazio voi tutti per la pazienza, ma data la delicatezza dei temi che dovrò trattare, questa pazienza si impone. ella ricostruzione che mi accingo a fare ho seguito un metodo rigoroso di indagine, proprio perché questa ricostruzione dei fatti per certi versi potrà in qualche modo sollevare più che un interrogativo. Perché, vedete, Borsellino me lo immagino in questo momento dietro di me con una foto, quella foto gigantesca in cui si trova da solo nei corridoi del palazzo di giustizia. Un palazzo di giustizia che era diventato per lui, e lo dimostrerò, un luogo in cui probabilmente non si trovava più a proprio agio. Tant’è vero che a distanza di anni abbiamo saputo che, come diceva Lucia al culmine della sua prostrazione psicofisica di quei giorni, lo ebbe a definire un «nido di vipere».

È un modo di esprimersi di Borsellino assolutamente inconsueto. Chi lo ha conosciuto sa che viveva il proprio ruolo di magistrato, ma soprattutto viveva l’istituzione magistratuale con il massimo del rispetto possibile. Quindi dovremmo cercare di capire perché quell’uomo a un certo punto definì il suo ufficio un nido di vipere. D’altra parte, devo dire che l’interesse per la ricostruzione che vi farò nasce anche da un dato puramente di strategia comunicativa. Vedrete che questa indagine si fonderà in gran parte rigorosamente su dichiarazioni provenienti da testi qualificati perché colleghi. Ma non solto per questo, perché l’attendibilità intrinseca del dichiarante verrà sostanzialmente riscontrata estrinsecamente dall’incrocio di altre dichiarazioni nel frattempo raccolte e che convergono tutte logicamente verso l’accertamento della circostanza da dimostrare.

C’è un problema di strategia comunicativa, perché in tutti questi anni è stata riportata la testimonianza resa dalla signora Agnese Piraino, in cui Borsellino, al culmine del senso di morte incombente che ormai era per così dire inevitabile (poi vedremo se era veramente inevitabile questa morte, se questo sacrificio era evitabile), a un certo punto (se cliccate su Google «frasi famose di Paolo Borsellino» vi sono anche delle copertine di libri che riportano questa frase) dice alla moglie, e la moglie ne fa testimonianza alla procura della Repubblica di Caltanissetta: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri». Ebbene, è stato costantemente espunto, censurato in questa definizione il riferimento «ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri». «I miei colleghi». Se noi incrociamo questa confidenza d Borsellino con la testimonianza del 2009 riconfermata nel 2011 dalla dottoressa Alessandra Camassa e dal dottor Massimo Russo, in cui ci dicono che Borsellino definisce il suo ufficio un nido di vipere, allora dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione e indicazione come target e obiettivo di Borsellino, che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre preceduto gli omicidi eccellenti a Palermo. Quindi, giocoforza, andare a vedere rigorosamente, epistemologicamente, attraverso un metodo rigoroso, se già nel 1992 vi erano elementi sulla cui base ricostruire le dinamiche comportamentali che avevano potuto giustificare quell’affermazione incredibile per chi ha conosciuto Borsellino, che lo ha portato a definire il suo ufficio un nido di vipere.

Ebbene, da questo punto di vista è stato per noi un dolore immenso, incommensurabile, avere scoperto che già dal luglio del 1992 esistevano dei verbali dell’audizione dei magistrati della procura di Palermo, in cui vuoi per la vicinanza rispetto al fatto eclatante, cioè la strage; vuoi perché in quella procura vi era un malessere che covava da tempo, i magistrati di allora furono sinceri e privi di qualunque freno inibitorio nel racconto delle dinamiche messe in atto dal procuratore Pietro Giammanco, che resero di fatto impossibile la vita di un magistrato valoroso e valente come Borsellino. La cosa gravissima che denuncio in questa sede è che il dottor Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage.

 iammanco è stato sentito dalla procura di Caltanissetta nell’ambito di altri procedimenti, di cui parleremo più avanti, relativi alla cosiddetta illecita divulgazione di quello che giornalisticamente viene chiamato il rapporto mafia appalti, ma che tecnicamente definisco comunicazione notizie di reato così definita: annotazione relativa alle attività di polizia giudiziaria esperita in merito a un’associazione per delinquere di tipo mafioso, strutturalmente inserita nell’organizzazione denominata cosa nostra, tendente ad acquisire la gestione o comunque il controllo delle attività economiche di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici nel territorio della regione Sicilia. Volgarmente e giornalisticamente detto «dossier mafia appalti».

Cercheremo attraverso questa ricostruzione di ancorare su dati certi e inoppugnabili, così come deve fare lo storico e non solo il giurista. Qui siamo in sede di ricostruzione storica, e questo è (non me ne voglia la presidente) il significato che in ambito processuale in qualche modo non si è riusciti ad avere la verità; quindi, ci è toccato spostare il piano della ricostruzione sul versante storico. Ma proprio per rendere questa ricostruzione la più stringente precisa possibile, i canoni applicativi e il metodo epistemologicamente seguito nella ricostruzione è come se fossi in un ambito strettamente processuale, quindi con i limiti derivanti, per esempio, dall’attendibilità delle dichiarazioni di chi le fa. Vi posso fin da subito dire che è stato mio dovere, nella ricostruzione che vi proporrò, innanzitutto proporvi dichiarazioni che hanno superato il vaglio delle corti d’assise finanche in Cassazione.

Ho evitato anche l’estrapolazione frammentaria di una dichiarazione da un verbale, piuttosto che un’altra, perché questo a volte costituisce elemento che può ingenerare confusione se non si porta il carattere completo della dichiarazione. Perché magari, nel corso di una sentenza, una dichiarazione viene riportata ma appena sopra o appena sotto quella dichiarazione viene smontata. Quindi vi proporrò delle dichiarazioni che dovrò leggere qualche volta, perché vi rendiate conto che dietro questa mia attività c’è un lavoro massacrante: la lettura di 19 sentenze sulla strage di via D’Amelio, del rapporto dei ROS (900 pagine), dell’informativa Sira (altre 600), dell’informativa Caronte (altrettante), verbali della commissione. Non so neanch’io quante cose ho letto.

Allora, proprio per rendere la mia ricostruzione onestamente attendibile, vi dico che laddove ci saranno contrasti, laddove le dichiarazioni presentano elementi di contrasto li farò presenti. Sulla base, poi, di altri elementi che andremo a incrociare da questa incredibile messe di atti proporrò una conclusione logicamente accettabile, ma credetemi solo sulla base di un criterio invalso nella giurisprudenza in relazione all’interpretazione dell’art. 192 del codice di procedura penale.

 ono contento di essere qui. Vorrei ricordare una citazione di Leonardo Sciascia. Sciascia, commentando la Relazione di minoranza dell’onorevole Beppe Niccolai, ebbe a dire: «Io sono stato intervistato a Palermo dalla televisione francese e la televisione francese mi ha chiesto perché io avessi dubbi sui lavori di una Commissione parlamentare antimafia». Sciascia dice: «Se fosse venuta la televisione italiana avrei risposto ugualmente come ora vi dico». Sciascia dice: «Assolutamente, io non ho mai messo in dubbio...» È un dibattito mai sopito quello, ancora oggi attuale, circa il fatto che la nostra presenza qui abbia un significato importante. Io ritengo che sia per noi un momento di passaggio istituzionalmente fondamentale. Sciascia dice: «No, io non ho mai voluto dire che i lavori della Commissione non sono importanti. Anzi, le dirò di più. Ci sono cose utili, si evince per esempio chiaramente che i marescialli dei carabinieri e i marescialli di pubblica sicurezza quasi sempre hanno fatto il loro dovere, ma è più in alto che non si è fatto quello che si doveva fare».

Fatta questa citazione e date queste premesse, l’oggetto della nostra ricostruzione (che, ripeto, è una ricostruzione che vuole offrire a voi spunti per un approfondimento) vuole dimostrare sostanzialmente una cosa, che è stata un po’ negletta e trascurata, benché le sentenze passate in giudicato (Borsellino ter, Borsellino quater in particolare) hanno sempre posto l’accento sull’interesse di Borsellino sulla scorta del pregresso interesse di Giovanni Falcone sull’indagine denominata «Mafia appalti».

Per capire l’importanza e le potenzialità investigative di questo dossier vorrei sostanzialmente darvi qualche piccola coordinata di contestualizzazione storica, cioè nel momento in cui si calano le stragi di Falcone e di Borsellino e le indagini dei ROS.

 l 1992 si apre con la conferma in Cassazione della sentenza del maxiprocesso. Nel febbraio 1992 accadono due episodi importanti, totalmente divaricati, non assimilabili, perché avvengono una a nord e l’altra al sud. Il 17 febbraio 1992 (se sbaglio qualche data è documentale, capite bene quante date devo tenere a mente) viene arrestato Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio. Vengono trovate nel suo ufficio due mazzette, 50 milioni nel cassetto e poi 10 milioni in una busta che gli era stata consegnata dall’imprenditore delle imprese di pulizia, che messosi d’accordo con la polizia giudiziaria guidata dal dottor Antonio Di Pietro organizzano il blitz e lo arrestano in flagrante. Egli tenta in maniera abbastanza ridicola di lanciare nel water quella busta e di accampare delle scuse, per evitare l’arresto in flagranza, che quei soldi erano roba sua e che non c’entravano niente con le mazzette. Ebbene: dalla mazzetta di dieci milioni nel novembre siamo arrivati alla mega tangente Enimont. Questo rapporto a mio giudizio, nella sua imperfezione, so che non era perfetto, ma adeguatamente sviluppato il rapporto era molto di più che una mazzetta. Adeguatamente sviluppato, avrebbe mirato al cuore del sistema. i è un’altra data importante, il 24 febbraio Totò Riina subisce l’ulteriore batosta, quella definitiva: la condanna per il processo di Emanuele Basile. Lì c’è un tentativo di avvicinamento da parte del notaio Ferraro con il giudice Scaduti per cercare di ammorbidire la sentenza; devo dire che il giudice Scaduti per fortuna parla con Borsellino, il quale gli consiglia di fare una relazione di questo tentativo di corruzione. Grazie a quella relazione, Scaduti in qualche modo, secondo me ha evitato guai grossissimi. Però Borsellino, ritornando a casa, disse alla moglie: «Me la faranno pagare, perché la vicenda Basile mi perseguita».

Voi dovete sapere che l’odio di Riina nei confronti di Borsellino è antecedente a quello nei confronti di Falcone. Borsellino era odiato, era considerato da Riina (scusate l’espressione) «un grandissimo cornuto inavvicinabile». L’altro evento importante avviene il 12 marzo 1992, l’assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima. La storia si è incaricata di definire il ruolo di Riina nello scacchiere siciliano.

Il 5 aprile 1992 il corpo elettorale, democraticamente, dà il primo colpo serio al sistema partitocratico, dando di fatto la possibilità alla Lega di raggiungere il 25% in Lombardia e il 9% su base nazionale. Vi prego di non considerare il 9% di allora con riferimento ai tempi di oggi, perché il 9% di allora, in cui ancora il sistema morente ma pronto a giocarsele tutte prima di crollare, pronto a giocarsele tutte le carte prima di crollare, il 9% era un grimaldello devastante, che nel coagulare il malcontento degli italiani stava dando l’ulteriore colpo a un sistema partitocratico già in crisi per effetto dell’onda lunga derivante dal crollo del Muro di Berlino e quindi degli equilibri politici che avevano dal 1948 retto l’Europa e quindi l’Italia in particolare. l 28 aprile 1992 Francesco Cossiga si dimette. L’ultimo anno di Presidenza della Repubblica di Cossiga si connotò quale effetto dell’onda lunga della caduta del Muro di Berlino, però serie di picconate al sistema. Si dimette perché sa che sta arrivando lo tsunami delle indagini di Mani Pulite, sa che non può nel semestre bianco avere alcun potere di formalizzare una crisi di governo, sa che c’è un popolo italiano inviperito da quello che man mano emerge dalle inchieste milanesi, quindi ha la necessità di fare il passaggio di consegne onde consentire a un Presidente della Repubblica nei pieni poteri eventualmente di sciogliere e formalizzare una crisi qualora Presidenti di consiglio incaricati o in carica potessero essere raggiunti da avvisi di garanzia.

Prima di arrivare al 28 aprile c’è qualcosa che devo ricordare: l’omicidio il 4 aprile 1992 del maresciallo Guazzelli ad Agrigento. Lo devo ricordare perché a questo farò riferimento nel corso della mia relazione.

Il 23 maggio 1992 muore Falcone e si sblocca l’impasse parlamentare per l’elezione del Presidente della Repubblica. Il 28 giugno 1992 giura il Governo Amato. Il 10 luglio 1992, di notte, il Governo Amato, per impedire che l’Italia fuoriesca dal sistema monetario europeo, con un decreto-legge dispone il prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani (di una somma irrisoria, per carità lo 0,06 per cento). Ma quegli italiani a cui viene fatto il prelievo forzoso se avessero scoperto che i politici erano invece lì non a rubare, sostanzialmente a utilizzare la spesa pubblica, gli enti pubblici economici, come una gallina dalle uova d’oro da cui sostanzialmente ricavare gli elementi per il sostentamento di un sistema degenerato e arricchimenti personali. Vi rendete conto che ci sono ragioni serie di allarme per reagire nei confronti di magistrati che volevano appunto scoprire quel malaffare.

Questi sono dati che vanno considerati prima ancora di entrare, perché dal punto di vista storico il crollo del Muro di Berlino ha degli effetti che non si rivelano immediatamente, ma si diffondono in un arco di tempo più o meno lungo. In Italia l’ondata è arrivata intanto nel 1990 con le inchieste su Gladio, la rivelazione dell’esistenza di un sistema di controspionaggio quali stay behind e poi tutto il resto. Cioè, il sistema è costretto a tirar fuori tutti gli elementi che, se giustificabili in un’ottica di contrapposizione tra NATO e Paesi dell’Est, ora non sono più giustificabili. Allora resta un sistema che gli manca solo che i cittadini italiani scoprono, attraverso delle indagini fatte seriamente, che il punto d’incontro tra mafia, politica ad alti livelli, imprenditoria soprattutto di rilevanza nazionale, e quello dell’erosione della spesa pubblica, questi sono elementi che a mio giudizio fanno diventare recessiva l’applicazione di paradigmi interpretativi volti, per esempio, a rinfocolare l’eversione di destra o di sinistra. Perché l’eversione di destra o di sinistra aveva una sua giustificazione in una logica sostanzialmente di contrapposizione fondata sul vecchio equilibrio. Il vecchio equilibrio è finito e qui si sta rivelando in tutta la sua oscena rappresentazione la degenerazione del sistema partitico, della partitocrazia.

  orsellino era solito dire che la mafia e la politica hanno in comune una cosa: il controllo del territorio. La lettura del rapporto Mafia-Appalti è la materializzazione, a nostro avviso, di questa tregua, di questa pace, di questo accordo. È chiaro che essendoci dall’altra parte l’associazione mafiosa ogni tanto essa fa valere il suo peso di associazione. uando dicevo che il rapporto per certi versi è imperfetto, lo dico nel momento in cui dà una visione panmafiosa della illecita gestione. Perché in realtà l’esistenza dei comitati d’affari sono un prius rispetto all’associazione mafiosa. Tant’è vero che gli stessi magistrati, giustamente, nella richiesta di arresto del 25 giugno 1991 riconoscono che l’avvicinarsi della mafia alla gestione illecita degli appalti è un climax, cioè si passa da fasi di parassitismo – faccio pagare il pizzo per il territorio in cui insiste l’opera pubblica da realizzare – a un sistema di infiltrazione sempre più preponderante. a l’acqua piovana per infiltrarsi deve avere un tetto da cui infiltrarsi e in cui infiltrarsi, gli accordi tra politici e grandi imprese precedono, il sistema delle combine precede il co-protagonismo di cosa nostra. Perché è un disegno egemonico specifico di Riina quello di pretendere, visto che il sistema dei partiti sta crollando, attraverso l’istanza economica, agganciando i grandi imprenditori nazionali, di raggiungere le sedi del potere. ’aleatorietà dei punti di riferimento, conseguente al processo irreversibile di disgregazione del sistema partitocratico, impone alla mafia di ridisegnare i collegamenti e i meccanismi di controllo, perché la politica non può essere più il campo della mediazione. Questo è andato bene nel vecchio sistema, quando tutti, chi da una parte e chi dall’altra, per fini diversi, avevano l’interesse a ottenere il controllo del territorio. La politica in termini di assistenzialismo clientelare e di controllo dell’elettorato, la mafia in termini di controllo del territorio tout-court, in una interazione costante reciproca di totale tentativo di plasmare in tal modo una società civile capace di andare oltre le dinamiche e i contrasti all’interno di una stessa organizzazione politica. In altri termini, quel sistema di potere che si era in qualche modo consolidato da circa trent’anni in Sicilia, dagli anni ‘60 fino alle stragi del 1992, andava bene a tutti.

Vi leggerò, se volete, un’intercettazione tra Domenico La Cavera, consigliere di amministrazione della Sirap, ed Emanuele Macaluso, in cui si parla dello studio di via Sciuti di Ciancimino in cui tutti si recavano a prendere la loro parte di tangente, e ridono nell’ambito di quella trascrizione. Io trovo tutto questo sommamente immorale. La conventio ad excludendum riguardava il PCI ed era una conventio ad excludendum nel senso che la mafia non aveva un’ideologia, non ha mai avuto un’ideologia, ma sicuramente non ha mai detto votate per il PCI.

Il PCI, attraverso il sistema delle cooperative, aveva un modo indiretto di partecipare alla gestione della torta. La conventio ad excludendum era per il MSI-Destra nazionale, in quanto se c’è una cosa che ha sostanzialmente sempre unito, in Sicilia in particolarmente, mafia, clero, politica, l’antifascismo da un lato e l’anticomunismo dall’altro. C’è da dire che tutto questo, come vedete, ci fa comprendere che cosa?

Ci fa comprendere innanzitutto l’importanza del dossier. Ripeto, è un atto imperfetto, non possiamo considerarlo un rapporto perfetto. Così come non era perfetta la mazzetta di Chiesa, però alla fine si è arrivati alla mega-tangente Enimont. Bisognava starci sopra. D’altra parte, Falcone, che ne sollecitò la consegna nel febbraio del 1991, disse in un dibattito che bisognava in qualche modo riaffinare le metodologie di indagine, anche perché ormai, disse, esiste una centrale unica. Non centrale mafiosa. No, parla di centrale unica degli appalti.

Ho risentito la registrazione, perché ho letto da qualche parte che si parlava di centrale mafiosa. No, Falcone dice «centrale unica degli appalti» in cui sono coinvolti tutti. E lo dice a Castello Utveggio nel marzo del 1991. Mi interessava fare questa premessa perché è importante calare l’interesse prima di Falcone e di Borsellino poi, per il rapporto del ROS; altrimenti non si capisce l’importanza dell’interesse stesso e dell’indagine e perché è possibile, in un’ottica preventiva, che siano stati entrambi assassinati. Nel caso di Borsellino l’elemento è ancora più importante laddove si consideri che l’accelerazione dell’esecuzione della strage non ha senso guardando agli interessi puri e semplici dell’organizzazione di Riina.

  oi sapete meglio di me che era in discussione la conversione in legge del decreto-legge dell’8 giugno del 1992, con cui, come secondo pacchetto di norme voluto da Falcone, finalmente magistratura, forze dell’ordine e chi deve sul territorio combattere la mafia, sono dotati di un sistema di norme che forte dell’esperienza di Falcone finalmente poteva contrapporre una certa efficacia nell’azione di contrasto. iene introdotto il doppio binario procedurale. Viene introdotto il 41 bis! , come sempre era successo, in ragione di quella contiguità, di quella commistione di cui parlavo prima tra forze di governo e mafia, perché la mafia è sempre stata un antistato, sì, ma ha svolto più una funzione di complementarità nell’azione di controllo del territorio, controllo della società civile.

Mi sono sempre chiesto da bambino perché Palermo diventa sempre lo sfondo per atti che non potevano accadere in nessun’altra parte d’Italia. Palermo è stato il luogo in cui si sono consumate delle tragedie che probabilmente, nel momento stesso in cui venivano compiute, si sapeva che l’opinione pubblica, la società civile, avrebbe assorbito il colpo; dall’altro le forze di governo, in qualche modo contigue a questo sistema malato, avrebbero garantito quella sorta di camera di compensazione per un frazionamento della risposta legata a una logica emergenziale. Poi tutto ricominciava daccapo.

La fine del sistema dei partiti introduce un elemento di aleatorietà per cui questo non è più possibile. Riina lo capisce subito, nel 1991: quando Falcone e Luciano Violante riescono, tramite Brancaccio, a sottrarre il maxiprocesso affidandolo al collegio di Arnaldo Valente. Sa che il sistema ha i suoi problemi, c’è malessere, ampi settori della società civile non accettano più perché stanno male economicamente, c’è uno scollamento, c’è una crescita della società civile rispetto a un fenomeno che ha distrutto le magnifiche sorti progressive di questo Paese. Finalmente la società civile comincia a reagire, il corpo elettorale ha reagito. Così come il Movimento 5 Stelle nel 2017 ha ottenuto il 30% e oltre, giustamente. Perché il corpo elettorale in una democrazia matura, quando le cose vanno male, decide. Non necessariamente bisogna passare da chissà quali strategie eversive, politicamente eversive. Questo è un punto chiave: questa analisi di contesto va fatta perché dobbiamo capire innanzitutto perché Borsellino in qualche modo a un certo punto, arrivato alla Superprocura… è un punto fondamentale: non si può ammazzare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca. Quindi ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione e deve fermare i magistrati su indicazione, su suggerimento di terzi, deve fermare quei magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti, che pensava in tal modo di poter evitare l’inevitabile. Doveva morire anche Di Pietro, non dimenticatelo. Dovevano morire quei magistrati che hanno a che fare con inchieste che possono portare a disvelare il sistema marcio dei partiti, che aveva sostanzialmente distrutto l’economia italiana. Questo Borsellino lo capisce. C’è un’importantissima testimonianza resa da Di Pietro nell’aprile del 1999 nell’ambito del processo Borsellino ter, in cui parlando con Borsellino dicono «dobbiamo trovare il sistema per fare parlare gli imprenditori». Questo è molto importante. Di Pietro dice: «Attraverso gli imprenditori arrivo ai politici». Borsellino dice: «No, in Sicilia c’è Cosa Nostra, gli imprenditori non è così facile farli parlare. Però dobbiamo trovare il sistema per farli parlare». È molto importante che sia Di Pietro che Borsellino mirano ai politici indirettamente. Sanno che facendo parlare gli imprenditori sarebbero arrivati al sistema politico.

Questo mi servirà nel corso dell’audizione, quando dovrò sostanzialmente ritenere debole l’argomentazione secondo cui il rapporto del ROS non conteneva il nome di tutti i politici. A parte che questo poi lo potremo verificare, ma il punto non è il politico, il politico ha avuto un ruolo fondamentale, ma devi trovare il grimaldello per arrivare al politico. Erano talmente convinti sia Di Pietro che Borsellino che il grimaldello sarebbe stato l’imprenditore, solo che Borsellino non ha avuto il tempo di arrivarci.

(Continua)

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